Luz Long. Chi era costui? Berlino 1936: sboccia il fiore Bianco e “Negro”

by Pierluigi Palmieri01/08/20210037

di Pierluigi Palmieri

Jesse Owens dovrebbe essere conosciuto da chiunque mastichi un po’ di sport e ricordato da tutti anche in questa  prima domenica di agosto 2021, con Tokio 2020 in pieno svolgimento.

I giornali, le riviste specializzate e i canali TV, riempiono i palinsesti, oltre che di dirette dal Giappone, anche di retrospettive sulle precedenti edizioni, che sono state trentuno. Le Olimpiadi sono, da sempre, state caratterizzate da episodi ed eventi degni di nota, spesso anche per questioni non prettamente sportive.

Nel richiamo, a volo d’uccello, solo alcuni hanno lasciato il segno oltre che negli annuari dello sport, anche nella storia in generale. Su quest’ultimo aspetto mi piace  evidenziare una contraddizione di fondo del ciclo Olimpico “moderno” pensato e realizzato nel 1896 da Pierre De Coubertin.  La storia ci racconta che, in concomitanza con i Giochi città e regioni della Grecia, in guerra tra loro, si impegnavano ad applicare una tregua detta appunto olimpica. La competizione (agon) veniva trasferita nello Stadio dove, gli atleti vincitori, erano elevati al rango di eroi. Il diplomatico francese si era ispirato a  giochi antichi, con il precipuo scopo di far avvicinare i popoli di tutti i continenti rappresentati simbolicamente, con il proprio colore, nei notissimi  Cinque cerchi intrecciati, simbolo ufficiale delle Olimpiadi.

Il ciclo è stato interrotto, paradossalmente, in concomitanza con i due conflitti mondiali (1915-18 e 1940-45). Le  grandi potenze USA e URSS hanno poi boicottato ben due Olimpiadi non recandosi rispettivamente a Mosca nel 1980 e a Los Angeles nel 1984 . In precedenza a Montreal, nel 1976, non si presentarono 27 paesi africani su 29 per protesta contro l’apartheid nel Sud Africa.

Il  boicottaggio canadese era stato causato dalla mancata esclusione dai giochi, da parte del Comitato Olimpico Internazionale, della rappresentativa  di rugby della Nuova Zelanda accusata, prima di essere andata in Tournée nel paese che teneva in prigione Mandela, poi che nella nazionale venivano accettati solo atleti bianchi.

A Mosca ’80, gli Stati Uniti non si presentarono con il chiaro intento di denunciare l’invasione sovietica in Afghanistan; a Los Angeles ’84, in piena guerra fredda, i russi non parteciparono per motivi di “sicurezza nazionale”.

Si certificava così la fine dei principi ispiratori dell’iniziativa  decouberteiniana  e l’olimpismo, antico e moderno, lasciava spazio alla speculazione politica, mentre la spettacolarizzazione veniva portata agli estremi.

Oggi è quindi palese che i risvolti commerciali risultano preminenti e trovano supporto e alimentazione nella tecnologia dello streaming e del replay, a cui tutti siamo ormai assuefatti.

Un tentativo di boicottaggio, da parte di diversi paesi con in testa gli Stati Uniti, c’era stato anche in occasione delle Olimpiadi di Berlino del 1936, per i sospetti, peraltro non privi di fondamento,  che il regime nazista aveva fatto nascere con una propaganda a supporto dell’immagine del III Reich hitleriano e della sua politica espansionistica e antisemita ma, con la compiacenza della diplomazia americana e dello stesso De Coubertin, il boicottaggio rientrò anche se, a cose  fatte, le motivazioni risultarono fondate. Ma, mi sento di dire, che è stata una fortuna perché non staremmo, ancora oggi, a parlare di Jesse Owens e della sua straordinaria impresa. Vinse infatti, nell’atletica leggera,  quattro gare:  100 metri, 200 metri, staffetta 4 x 100 e salto in lungo.  Ma soprattutto perché alla vittoria dell’americano, in quest’ultima specialità, è legata  una vicenda di grande spessore umano, che si caratterizza come l’emblema dell’olimpismo più puro  e resterà indelebile per sempre. Mentre si svolgevano le qualificazioni e, in quel frangente, Owens  aveva già sbagliato due dei tre salti disponibili necessari a realizzare la misura minima stabilita per essere ammesso alla semifinale, (un altro errore e sarebbe stato fuori!)  Luz Long , l’atleta su cui tutta la Germania puntava per dare prova della supremazia ariana e, nella  graduatoria mondiale del ‘36, già vantava misure vicine a quelle di Owens, anziché pregustare l’alloro olimpico che  sarebbe stato suo in caso di eliminazione dell’americano, pensò bene di aiutarlo. Lo rese partecipe dei segreti della pista  che conosceva a menadito e su cui si era allenato minuziosamente per velocizzare  la rincorsa ed individuare  il migliore punto per la staccata. Luz, senza indugio, invitò Owens a correggere la rincorsa e ad anticipare il punto di “stacco”.

Quanto appreso dalla straordinaria ed impensabile generosità del tedesco consentì a Jesse di non sbagliareil terzo ed ultimo tentativo e di proseguire il suo cammino verso il trionfo.

Per l’atleta tedesco, in  quel particolare momento storico, la vittoria avrebbe avuto un valore incommensurabile, sia in termini di popolarità che di benefici personali.  Invece con rara capacità empatica si mise nei panni dell’avversario, ritrovando in lui il suo stesso impegno e lo stesso spirito di sacrificio, che stavano per essere vanificati dalle caratteristiche della pista del “suo” Stadio.

La scelta prioritaria di Luz fu quella di competere lealmente e ad armi pari. Il rispetto dell’avversario innanzitutto nel consentirgli parità di conoscenza degli spazi e un’analisi lucida e pura del problema dell’altro, immedesimandosi in una situazione in cui lui non si sarebbe mai voluto trovare.

L’instinct killer di chi vuole vincere a tutti i costi non era nel suo patrimonio genetico. L’atleta “ariano” per niente razzista e sicuramente non in linea con lo spirito del regime, che aveva preparato l’evento per magnificare la superiorità e aveva  costruito lo Stadio in quel momento affollato da 120.000 spettatori  pronti ad acclamarlo. Long delude il pubblico, ma non se stesso. Quando Owens effettua il suo ultimo salto di finale ha ormai la certezza della vittoria e fa l’’ultimo volo che lo porta ad oltre 8 metri dal punto di battuta (ormai divenutogli familiare)  trova ad  aspettarlo il suo “avversario/allenatore” che lo abbraccia, a sottoscrivere la legittimità della vittoria.

Questa è una splendida vicenda  umana nata dallo sport, che a mio parere va raccontata come favola nella scuola dell’infanzia e inserita nei programmi di Storia in tutti gli ordini degli studi e in tutti i paesi del mondo. Nessun giovane  delle future generazioni dovrebbe mai dire: Luz Long. Chi era costui?.  Perché a Carl Ludwig Herman Long, detto Luz, il numero due del III Reich Rudolf Hess disse “Non abbracciare mai più un negro”

Perché la storia  di Owens è legata al Fordismo, alle catene di montaggio e all’insediamento in Alabama dei Neri del Sud degli Stati Uniti d’America. Ma anche all’ostracismo del presidente Roosvelt che somiglia tanto al razzismo di Hitler. Perché Luz Long, morto sul fronte siciliano della seconda guerra mondiale, scrisse queste parole al suo avversario nello sport, Jesse Owens:

 “Il mio cuore mi dice che questa potrebbe essere l’ultima lettera che ti scrivo. Se così dovesse essere ti chiedo questo: quando la guerra sarà finita vai in Germania a trovare mio figlio e raccontagli anche che neppure la guerra è riuscita a rompere la nostra amicizia.Tuo fratello Luz”

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